domenica 30 marzo 2014

Pensieri nella notte

È notte. Tutto è buio intorno a noi. Nel silenzio della nostra stanza, nel nostro letto, i pensieri si risvegliano e cominciano a fare festa. Comincia il viaggio. Un viaggio che può essere spensierato come una gita scolastica: i pensieri sono come gli alunni che si agitano, ridono, scherzano e ti coinvolgono con loro, facendoti comparire un sorriso ebete in volto mentre sei disteso nel tuo letto. Oppure un viaggio più lungo, un po' noioso e stancante, ma che alla fine sa dare tante soddisfazioni. Sono quei pensieri che guardano al futuro, più o meno distante che sia, dove ponderiamo e rimuginiamo ancora e ancora le nostre scelte. Ed infine, c'è il viaggio che mai nessuno vorrebbe fare. Quel viaggio in cui veniamo visti da tutti, anche da noi stessi, come dei colpevoli di un crimine mai commesso. Durante il viaggio ci verranno poste delle domande, un po' per curiosità e un po' per passare il tempo. Domande di cui si sa benissimo la risposta, ma a cui non vorremmo rispondere. Ed allora si passerà tutto il viaggio guardando fuori dal finestrino, con lo sguardo perso nel vuoto, sentendo queste domande ronzare nella mente. Fino a lasciarsi andare. Fino ad avere gli occhi lucidi. Fino a far cadere le prime lacrime che righeranno il nostro viso, per poi finire sul cuscino. Prima una lacrima, poi un'altra. Infine, tutto il nostro viso. Perché i pensieri nella notte non vogliono dormire e noi dobbiamo rimanere svegli con loro. Volenti o nolenti.

sabato 29 marzo 2014

Cuore di tutto, cuore di niente

Un battito. Un altro battito.
È il mio cuore che batte. Con il suo lavoro, pompa il sangue in tutto il corpo, permettendomi di compiere tutte le varie azioni quotidiane: correre, saltare, mangiare, giocare, vivere. Una macchina perfetta, che non ha bisogno di essere azionata. Giusto una controllatina ogni tanto. Compie il suo lavoro egregiamente, in qualunque circostanza!

Un battito. Un altro battito. Ed un altro ancora. Questa volta più frequenti.
È sempre il mio cuore. Si è forse rotto? Perché va così veloce? Eppure non lo fa sempre. Che sia colpa... di lei? Un suo sguardo, un suo sorriso, la sua presenza.... Il suo profumo, il sapore delle sue labbra, il calore delle sue mani, il suono della sua voce.... ogni senso è come rapito. Ed il cuore allora comincia a battere più velocemente, forse per attirare l'attenzione e riportare tutti all'ordine. Ma nessuno lo ascolta. E lui continua a battere, sempre più veloce, fino a scoppiare. Ma lui non scoppia. Anche quando è immerso nel tutto, riesce comunque a gestire e a gestirsi. Anche se nessuno lo ascolta. Anche se lui stesso non si ascolta. Però ci riesce.

Un battito.... Un altro battito arriva tardivo. Un altro non si sa quando, ma arriva anche lui.
Sì... è ancora lui, il mio cuore. Questa volta sembra pigro, assente, inesistente. Non ha più la vitalità di un tempo. È da quando quella persona non c'è più... Lentamente continua il suo lavoro. Lentamente continua a battere imperterrito. Quello è il suo unico scopo e lo porta avanti fino alla fine. Anche se nessuno glielo chiede. Anche quando è immerso nel niente. Gli altri sensi non trovano più una primavera, il resto del corpo è come in un eterno letargo. Ma lui no. Lui continua a lavorare, ad andare avanti. Lentamente. Inesorabilmente. Finché, anche per lui, è arrivato il momento di arrendersi. Giunse, infine, il meritato riposo. Ne sarà valsa la pena?

Un battito.

Un altro battito.





Silenzio.

Lacrime

Lacrime. Fiumi e fiumi di lacrime scendono da quel mio viso triste, spento, stanco. Stanco di tutto. Stanco dell'essere forte. Stanco di portare una maschera. Stanco della sofferenza stessa. Dagli occhi ecco scendere una lacrima, poi un'altra e un'altra ancora. Le lacrime si abbracciano, come per farsi forza a vicenda, per darsi coraggio. Ma poi ce n'è qualcuna che, stanca di tutta quella ipocrisia, di quell'illusione, decide di allontanarsi dalle altre, di scappare. Eccole, quelle lacrime. Quelle lacrime che rigano il nostro volto. Che arrivano fino al mento e si infrangono a terra. O che si fermano sul nostro naso, scrutando l'orizzonte. O ancora, che arrivano alle nostre labbra, facendoci assaporare il gusto salino che ha la tristezza. Un ingrediente che, in piccole dosi, riesce a dare sapore alla nostra pietanza, alla nostra vita. Ma che, se usato eccessivamente, può rovinare irrimediabilmente il piatto.

sabato 15 marzo 2014

Bus to Nowhere

«D-dove mi trovo? Che posto è questo?»

Colin si risvegliò in mezzo a dell'erbaccia, sul ciglio di una strada asfaltata. Il terreno era tutto fangoso a causa della pioggia che cadeva incessantemente. La luna illuminava debolmente l'ambiente circostante: oltre a quelle poche erbacce e a qualche cespuglio, non vi era traccia di vegetazione alcuna: nessun albero, nessun fiore, nessuna pianta. Dall'altra parte, invece, nemmeno l'ombra di una macchina. Completamente deserto. Colin si trovava spaesato e visibilmente impaurito.

"Perché sono qui? Come ci sono arrivato? E come faccio a tornare a casa?"

Improvvisamente nella testa del ragazzo cominciarono ad affiorare dei ricordi dolorosi: una ragazza, ulra, disperazione, pianti, allontanamento, rabbia, depressione, pasticche.....

"No, non voglio tornare a casa... non voglio. La mia vita oramai non ha più senso..."

Ecco che improvvisamente si udì un rumore in lontananza provenire dalla strada. Un paio di luci si stavano avvicinando velocemente. Pochi secondi dopo, un grande autobus grigio si fermò accanto al ragazzo, benché non ci fosse nessuna fermata nelle vicinanze. La destinazione recitava "NOWHERE". Colin scrutò l'autista: era alto e magro, molto magro. Poteva scorgerne l'eccessiva magrezza dai polsi cadaverici. Aveva la pelle di un bianco pallido, le guance infossate, lunghe occhiaie, pochi denti e gli occhi spenti. Sembrava uno scheletro senza vita. Colin era lì che lo fissava senza proferire parola, alché il conducente si girò verso di lui dicendo: «Ragazzo che fai: sali o no?». Quegli occhi spenti, senza vita, fecero titubare il ragazzo. Superata la paura iniziale però, Colin trovò la forza per domandare: «Dov'è diretto questo autobus?»

«Non sai leggere? Quest'autobus non è diretto da nessuna parte. Vuoi salire o no?»

Colin non era ancora del tutto convinto. Allungò lo sguardo per vedere se ci fosse qualcun altro su quell'autobus. Vide un signore di mezza età in piedi ed una signora seduta, intenta a piangere. Vedendo quindi altre persone, decise di salire. Una volta salito, le porte dietro di lui si richiusero e l'autobus ripartì per quella strada buia e desolata, mentre la pioggia non accennava a diminuire.

Una volta sopra il mezzo, il ragazzo poté notare che c'erano più di quelle due persone che aveva notato. In totale erano in 5: la signora che piange seduta, il signore di mezza età che sospira in piedi, una bambina per terra che gioca con una bambola di pezza senza un braccio ed una gamba, una giovane ragazza seduta, intenta a guardare fuori dal finestrino, ed infine un distinto uomo in giacca e cravatta, in piedi in fondo all'autobus.

«Un'altra anima senza uno scopo. Benvenuto!» esordì l'uomo in giacca e cravatta.

«Chi sei tu?» chiese Colin.

«Io sono il controllore di questo autobus. Sicuramente sarai perplesso e ti starai domandando 'ma dove sono capitato?', giusto?»

«Beh sì, qualche domanda me la sto facendo...»

«Ebbene, lascia che ti spieghi! Questo è un autobus che ospita passeggeri che non hanno più un motivo per vivere. Ognuno di loro ha una motivazione per la quale non trovano più la forza di vivere e quindi salgono a bordo, su quest'autobus senza una destinazione. Ovviamente sono liberi di scendere quando vogliono, ma nessuno ha mai trovato la forza necessaria per questo passo. E tu? Qual è il tuo problema? Perché hai perso la voglia di vivere?»

I ricordi dolorosi di prima si riproposero violentemente nella testa del ragazzo. «Non sono affari tuoi» tagliò corto Colin.

«Come vuoi.... beh, buona permanenza! Accomodati pure dove meglio credi»

Il ragazzo era curioso di sapere le storie dei vari passeggeri. Il primo da cui andò, fu il signore di mezza età. Era alto e magro, come se fosse malnutrito. Pochi capelli in testa e lunghe occhiaie sotto i suoi occhi castani. Indossava un completo elegante ed aveva una valigetta vicino alla sua gamba destra.

«Salve! Posso domandarle perché lei è qui?»

Il signore piegò lievemente la testa verso di lui e, prendendo un profondo respiro, cominciò a raccontare: «Mi chiamo Michael, sono un uomo d'affari. Ho una bellissima moglie e due figli stupendi di 4 e 9 anni. Ho una bella casa, una bella macchina, dei bei vestiti... o sarebbe meglio dire avevo. Pian piano la società che gestivo ha cominciato ad accumulare debiti su debiti. Per pagarli, ho dovuto vendere tutto quello che avevo, ma non bastava mai.... Non riuscivamo ad arrivare a fine mese, litigavo continuamente con mia moglie, i miei figli indossavano stracci e non potevano permettersi nulla, nemmeno un gioco o uno sfizio. Ero stanco di tutto quello.... stanco. Così un giorno, decisi di farla finita. Con la mia assicurazione, loro avrebbero ricevuto una grossa somma di denaro che li avrebbe aiutati a ricominciare una vita più che dignitosa. Aspettai di rimanere da solo a casa, andai in cucina e legai un'estremita di una corda al soffitto. L'altra me la legai intorno al collo, ben stretta. Saltai dalla sedia e.... il buio. Mi risvegliai ai lati di una strada. Questo autobus passò ed io ci salii. Sono 2 anni che sono qui sopra oramai. Non so se sia morto o meno, so solo che non ho il coraggio di scendere, di andare dalla mia famiglia e guardarli ancora negli occhi.... spero solo che stiano bene»

«Capisco.... mi dispiace per ciò che ti è successo....»

Il signore sbuffò e tornò a fissare il vuoto. Colin decise quindi di proseguire, andando dalla signora intenta a piangere. Era una signora grassoccia, con lunghi capelli ricci biondo cenere. Il trucco che aveva in faccia le stava colando a causa delle lacrime. Il rossetto era quasi del tutto tolto, finito sul fazzoletto di stoffa che teneva in mano. Indossava un abito semplice da casalinga.

«Scusi, posso chiederle cos'ha? Perché sta piangendo?»

La signora si asciugò le lacrime col fazzoletto di stoffa, guardò il ragazzo e disse singhiozzando: «Cosa ci fa un ragazzo come te su quest'autobus?»

Colin stava per dire qualcosa, ma la signora lo interruppe: «Quanti anni hai? Venti? Venticinque? La mia Maggy avrebbe la tua stessa età sai....» e ricominciò a piangere.

«Maggy?» chiese il ragazzo.

«Sì, Maggy.... era mia figlia. Un maledetto incidente stradale me l'ha portata via 6 anni fa. Appena ho saputo la notizia, sono letteralmente impazzita. La depressione mi lacerava giorno dopo giorno, finché non ho deciso di prendere dei sonniferi per calmarmi.... evidentemente ne ho presi fin troppi. Mi sono risvegliata sul ciglio di una strada e quest'autobus mi ha raccolta. Da 6 anni sono qui sopra e non faccio altro che piangere. Non ho il coraggio di tornare da mio marito, di ricominciare....». La donna riprese a piangere. Colin non disse nulla ed andò dalla bambina. Era una bella bimba, con un elegante abito rosa e lunghi capelli castani. Il suo grazioso viso mostrava due grandi occhi verdi e delle belle guance rosse. Era seduta a terra, intenta a giocare con la sua bambola di pezza.

«Ciao! Che stai facendo?» chiese Colin.

«Sto giocando con la mia bambola... o con quello che ne è rimasto» rispose la bambina senza distogliere lo sguardo dalla bambola.

«Lo vedo... ma come mai sei qui?»

«Non lo so. L'ultima cosa che ricordo è che stavo giocando col mio cane Spike nel giardino di casa. Per sbaglio ho lanciato la palla troppo forte ed è andata in mezzo alla strada. Spike la stava rincorrendo.... io non volevo che si facesse male e sono corsa subito a riprenderlo. Poi, un rumore straziante di frenata.... un clacson che suona incessantemente..... la paura sale. Vedo Spike che viene colpito. Mi metto ad urlare, continuando a correre. Lascio cadere la mia bambola. Un'altra frenata. Mi giro e.... buio. Mi sono risvegliata tra dei cespugli, con la mia bambola mezza rotta in mano. Ho aspettato un po' e subito è apparso questo autobus. Non sapevo dove andare e sono salita. Non ricordo da quanto tempo sia qui sopra.... so solo che.... mi manca tanto il mio cagnolino.... Spike... dove sei....». La bambinia iniziò a singhiozzare. Colin tirò fuori dalla tasca un fazzoletto, lo porse alla bambina e passò oltre.

Rimaneva solamente la ragazza che guardava fuori dal finestrino. Era completamente priva di capelli, aveva la pelle rovinata e delle grandi occhiaie sotto i suoi bellissimi occhi azzurri. Colin si sedette vicino a lei e stava per rivolgerle la parola, quando la ragazza disse: «Sono malata di cancro. All'ultimo stadio. La chemio non è servita a nulla, se non a farmi perdere i capelli e rovinare il mio aspetto. Quando i medici hanno detto che non c'era più nulla da fare, sono scappata. Scappata dalla mia famiglia, scappata dai miei amici, scappata dal mio ragazzo.... non so nemmeno se sanno che sono spacciata oramai. Mi sono nascosta in un vicolo. Avevo una lametta con me....». La ragazza mostrò i polsi. Entrambi presentavano dei tagli piuttosto profondi. «Sembra però che non abbia funzionato. Mi sono risvegliata su del terriccio, vicino ad una strada, quando è passato questo autobus. Da 2 settimane sono qui sopra, aspettando la fine e guardando fuori dal finestrino. Sempre e solo il vuoto.... come quello che ho dentro. Perché la vita deve essere così ingiusta?»

Colin non sapeva cosa dire.

«E tu? Perché sei qui? Non mi sembra tu abbia qualche problema di salute. Hai per caso perso una persona a te cara?»

Il ragazzo ripensò a ciò che successe negli ultimi giorni. Le litigate che ebbe con la sua ragazza. La decisione di lei di farla finita e lasciarsi. Il suo non essere d'accordo con quella scelta. Ancora litigate. Pianti. Rabbia. Dirsi addio. Non accettare la cosa. Disperarsi. Fino ad arrivare a prendere delle pastiglie. Troppe pastiglie.

"Ma cosa sto facendo?". Colin si alzò, andò dal controllore e gli disse: «fermi subito l'autobus. Voglio scendere»

«Senti senti. E come mai questa scelta, ragazzo?»

«Ho capito di essere un idiota. Ci sono persone che hanno problemi seri, che soffrono per motivi ben più gravi dei miei, che hanno veramente perso tutto ciò che avevano. Poi ci sono io, che sono solamente un venticinquenne immaturo che appena gli si presenta un problema, all'apparenza insormontabile, decide di fuggire, disperandosi. Non voglio più comportarmi così. Voglio affrontare la vita e cercare di riuscire a farcela, malgrado le difficoltà. Voglio vivere! Anche per rispetto di queste persone. Voglio andare avanti anche per loro. Quindi la prego, fermi il bus». Colin era fermamente convinto. I suoi occhi brillavano di volontà e voglia di vivere.

L'uomo lo stava fissando. Abbassò lo sguardo e, con un sorrisetto, disse: «Ferma il bus». L'autista fermò delicatamente l'autobus. Colin diede un ultimo sguardo a quelle persone, salutandole con un cenno della testa e scese dal mezzo. Mentre stava scendendo, un ragazzo con le stampelle, senza una gamba e con una grave infezione al viso, era sul ciglio della strada. Colin lo guardò e non poté provare nient'altro che pena. Quel ragazzo salì sull'autobus che poi sparì nel buio della notte.

Colin allora iniziò a camminare, verso l'ignoto. L'unica cosa che poteva guidarlo... era una piccola luce all'orizzonte. Non era la luce della luna e nemmeno quella del sole. Era come una minuscola lucciola che se ne stava ferma in un punto. Colin la stava pian piano raggiungendo, passo dopo passo....


Il reparto di terapia intensiva del Lenox Hill Hospital di New York era sempre pieno di gente, un via vai continuo di medici e pazienti. Il Dr. Matt uscì dal reparto, visibilmente agitato. Stava cercando i signori Wilson, doveva parlargli.
Il signore e la signora Wilson erano nella sala d'attesa, seduti vicini, stringendosi le mani a vicenda. Erano tesi, molto tesi. La signora era sul punto di piangere. Quando videro il Dr. Matt, corsero verso di lui con la speranza negli occhi.

«Allora dottore, ci dica... ci sono novità?»

Il Dr. Matt riprese fiato per la corsa fatta per arrivare fin lì. Guardò la coppia e, sorridendo, disse: «Vostro figlio è uscito dal coma!»

Prigione di luce

Ci sentiamo così, intrappolati in questo mondo.

È per questo che ci rifugiamo nei sogni, dolci realtà in cui tutto è lecito, anche l'impossibile.

Non vediamo l'ora di sprofondare nel letto per venir assaliti dai sogni, in cui provare nuove ed esaltanti sensazioni che altrimenti mai potremmo provare. Realizzare il proibito, scoprire l'ignoto, vivere per davvero. E se le cose dovessero mettersi male... possiamo sempre svegliarci.

Svegliarsi da un sogno... a volte può essere utile, altre volte è solamente una tortura. Perché in quel sogno stiamo vivendo la nostra vera vita, la realtà che avremmo sempre desiderato.

Ma il risveglio è inevitabile. Arriva senza preavviso, senza che ce ne accorgiamo. Un attimo prima stiamo sognando, l'attimo dopo siamo svegli. Pieni di rammarico, di rimorso. Con la sola, unica speranza di riprendere il sogno successivamente.

Il sole alto nel cielo, un nuovo giorno dinnanzi a noi. Titubanti, cerchiamo di andare avanti, di vivere ciò che la realtà, quella vera ci offre.

Ma ci sentiamo comunque intrappolati.

Intrappolati in questa luminosa realtà, da cui non ci si può svegliare e non si può fuggire.

Intrappolati in questa... prigione di luce.

lunedì 10 marzo 2014

La forza non è tutto

Questa è una fanfiction sul bellissimo manga Eyeshield 21 che ho finito di leggere da poco e... dovevo assolutamente scriverne una fanfic! Spero vi piaccia, buona lettura ^^

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Rikiya Gaou, il lineman più forte del Giappone. Un ragazzo forte, possente, che non ha paura di niente e di nessuno, che ha fatto della forza la sua unica ragione di vita. Si è sempre servito della sua forza per cavarsela in ogni situazione, sia nella vita di tutti i giorni, che nelle partite del suo sport preferito: il football americano. Almeno fino a quel giorno.....

Era una calda giornata estiva di agosto, il cielo limpido con una soffice brezza che rinfrescava il caldo e affollato ambiente di Tokyo. Gaou si trovava a passeggiare per Shibuya, in cerca di qualche sfidante alla sua altezza. Ma nessuno poteva competere con lui. Essendo un quartiere prettamente commerciale, è sempre molto affollato. Ma nemmeno una folla di centinaia di persone sembrava intimorire il possente Gaou che, semplicemente, ci passava attraverso, aprendosi dei varchi. Una persona normale ne sarebbe già stata travolta.

«Uff, che noia... credevo che almeno a Shibuya ci fosse stato qualcuno di interessante da sfidare, ed invece è pieno di mammolette. Come al solito», Gaou non riusciva a trattenere il suo disappunto. Improvvisamente, in un vicolo stretto e poco frequentato, riuscì ad udire un urlo di terrore: «NO, VI PREGO, LASCIATEMI IN PACE!». Incuriosito, si avvicinò e poté notare che un gruppo di 5 uomini avevano accerchiato una giovane ragazza.

«Hey hey HEY! Perché alzi la voce? Noi vogliamo solo parlare» disse uno degli uomini.

«Già, sei scortese ad alzare la voce, non è affatto carino....» aggiunse un altro.

«Forse è il caso che ti insegnassimo un po' di buone maniere... ragazzi, ADDOSSO!»

Il gruppo di malviventi si avventò contro la povera ragazza, quando Gaou decise di intervenire e, con due forti bracciate, buttò a terra tutti e 5 gli uomini.

«Hey, cos'è stato?»

«Devo aver ricevuto un pugno da qualcuno... ma da chi?»

«Hey! Chi è questo gigante?»

Il corpo di Gaou si stagliava possente sopra lo sguardo di quegli uomini attoniti.

«Non scherzare con noi gigantone!» uno degli uomini si rialzò in piedi e tirò fuori un coltello a serramanico. Gli altri fecero lo stesso.

«Tsk, siete noiosi anche con i vostri coltellini da quattro soldi» sentenziò Gaou.

«Vediamo se hai ancora voglia di fare lo spiritoso dopo quello che stiamo per farti... RAGAZZI, ADDOSSO!»

I 5 si avventarono contro Gaou che, con un paio di pugni, li mise KO in pochi secondi. Uno di loro era ancora semi cosciente. Gaou, con una mano, lo prese per la testa e lo sollevò, dicendo: «Non fatevi mai più vedere da queste parti», scaraventandolo subito dopo contro dei cestini per i rifiuti.

«Va tutto bene?» chiede Gaou alla ragazza che era immobile davanti a lui, in lacrime.

«S..sì... cr...credo di sì...»

«Beh, perché piangi?»

«P..perché... mi sono spaventata molto... se non ci fossi stato tu, quegli uomini avrebbero...»

«E piangi per così poco? Come sei debole, tsk»

«Beh... s.... scusami se non sono forte co... come te....», la ragazza si stava un po' rasserenando. «Ah, ma tu stai sanguinando!». Dal braccio destro di Gaou stava uscendo del sangue.

«E questa? Quando me la sono fatta?»

«Aspetta, ci penso io....»

«Tsk, non ti avvicinare donna! Non permetto ad un essere così debole di toccarmi!»

«Non fare lo sciocco... e poi devo sdebitarmi in qualche modo!». La ragazza estrasse un foulard dalla borsa e lo legò intorno al braccio nel punto della ferita, per fermare l'afflusso di sangue. «Hai un braccio così grande che un normale fazzoletto non sarebbe bastato, eheh!». La ragazza stava finalmente ridendo. Gaou era rimasto come impietrito: era la prima volta che qualcuno si preoccupasse per lui. E quel sorriso... non ci stava capendo più nulla. Si girò di scatto verso un muro e lo colpì con un violento pugno, demolendolo completamente.

«P... perché hai fatto una cosa simile???» chiese la ragazza timorosa.

«Dovevo allentare la tensione» rispose Gaou sicuro di se.

«Tensione? Perché sei teso?» domandò la ragazza. Per tutta risposta, Gaou distrusse un altro muro con una testata.

«Ok ok, perdonami, non te lo chiderò più! Almeno... posso sapere il tuo nome?»

«G-Gaou» rispose Gaou timoroso.

«Gaou uh? È davvero un bel nome! Io invece sono Rin, piacere di conoscerti!»

"Rin... è davvero... un bel nome" pensò tra sé e sé Gaou.

Da quel giorno i due continuarono a frequentarsi. Gaou sbalordiva Rin con la sua forza, mentre quest'ultima raccontava a lui dei suoi studi e le sue passioni. Era la prima volta che Gaou si interessasse a qualcosa che non fosse il football americano. Ed anche la prima volta che si interessasse a qualcuno che non fosse un suo avversario o un suo compagno di squadra. Quella ragazza... con i suoi lunghi capelli color argento e quegli occhi rossi, lo aveva come stregato. Si era instaurata una profonda amicizia, anche se Gaou stava provando qualcosa di più.... finalmente si sentiva felice dopo tanto tempo. Non era più alla ricerca di uno sfidante alla sua altezza, aveva trovato ciò che cercava e che poteva renderlo felice: una persona speciale da proteggere.

Siamo a metà agosto. Giornata calda e afosa, senza un filo di vento che spirasse. I due ragazzi decisero di uscire per prendersi un gelato. Fu lì, in quel parco, che incontrarono casualmente Kongo Agon, intento a fare una passeggiata. Appena vide Gaou, si avvicinò accennando un saluto.

«Salve bestione, che ci fai qui? E chi sarebbe questa graziosa fanciulla?». La ragazza era visibilmente imbarazzata. «Ciao, io sono Kongo Agon. Io e Gaou siamo stati compagni di squadra durante il torneo giovanile internazionale», Agon sfoggiava il suo falsissimo sorriso con secondi fini. Ma Gaou lo sapeva e si interpose tra lui e Rin. Con uno sguardo diabolico, fissò dritto negli occhi Agon e gli disse con voce ferma e tonante: «Sparisci». Al suono di quell'unica parola, Agon per la prima volta ebbe un brivido lungo la schiena. Un brivido di terrore. Gli occhi di Gaou erano quelli di una bestia assetata di sangue, capace di tutto pur di proteggere ciò che gli è caro.

«Tsk» disse Agon andandosene con la testa china.

«Come mai lo hai cacciato? Non era un tuo amico?» chiese Rin confusa.

«Siamo stati compagni di squadra, ma non siamo mai stati amici. Quello è un essere spregevole, non dargli mai confidenza Rin-chan»

«Ah, va bene Gaou-kun. Forza, andiamo a prenderci questo gelato!». Prima di andare però, Rin abbracciò Gaou cogliendolo di sorpresa. Ed è lì che lo sentì: un forte calore mai provato prima, che gli scaldò il cuore. Una sensazione sconosciuta, che non sapeva come definire se non come 'piacevole'. Avrebbe voluto provarla molte altre volte.

I giorni passarono e i due continuarono a frequentarsi, diventando sempre più intimi. Fino a quel nefasto giorno...

Rin chiese a Gaou di vedersi in riva al fiume dove una volta sono andati a fare un pic nic. Il suo tono di voce non era allegro e squillante come al solito, ma aveva un qualcosa di triste e malinconico. Arrivato al luogo dell'appuntamento in perfetto orario, Gaou vide che Rin era già lì ad aspettarlo. Aveva uno sguardo triste.

«Eccomi Rin-chan! Come mai quello sguardo? È successo qualcosa?»

«Gaou-kun... ecco... io devo partire per l'America...»

Il cuore di Gaou sussultò.

La ragazza continuò il suo discorso, tra un singhiozzo e l'altro: «ho fatto domanda per una borsa di studi in un college americano. Lì potrò studiare e diventare un importante medico. Avevo perso le speranze, ma non mi importava, visto che ho conosciuto una persona come te Gaou-kun. Però ieri è arrivata la risposta e sono stata presa.... dovrò partire domani mattina. È il mio sogno, spero che tu possa capire»

Gaou era come impietrito: se ne stava fermo, immobile, davanti a lei, con lo sguardo rivolto verso il vuoto.

«Spero comunque che ci teniamo in contatto... non voglio perdere una persona così speciale come te», Rin versò qualche lacrima nel pronunciare quelle parole. Gaou non rispose. Rin si avvicinò e lo abbracciò. Gaou rimase immobile, non provando nulla. Quel calore che tanto amava, ora era solo una fredda tempesta che non faceva altro che ferirlo. Dopo quell'abbraccio, Rin si voltò e, a passo veloce, si allontanò da Gaou. Senza fermarsi. Senza mai voltarsi.

Si alzò il vento. Il foulard sul braccio di Gaou iniziò a svolazzare. Benché la ferita fosse guarita da tempo, lui non volle togliersi quel pezzo di stoffa dal suo braccio. Gaou era ancora immobile, fissando il vuoto. Quando finalmente reagì, si girò verso il fiume e... cadde sulle ginocchia, sbattendo con forza le possenti braccia sul terreno, creando qualche crepa. Stava tremando. Sentiva un dolore dentro di sé. Un dolore mai provato prima. Non era come quando veniva placcato nel football, era un dolore del tutto diverso. Un dolore che faceva molto, molto più male.

Senza, Monta e Suzuna stavano passeggiando allegramente lungo il fiume, quando videro Gaou a terra. I tre corsero verso di lui per salutarlo: «Hey Gaou-kun!»

«NON OSATE AVVICINARVI! ANDATE VIA!»

L'urlo di Gaou li fermò immediatamente. Suzuna iniziò a singhiozzare, Monta cadde a terra per lo spavento e le gambe di Sena iniziarono a tremare. I tre si allontanarono pian piano, ancora tremolanti per lo spavento ricevuto, riprendendo i propri passi.

Gaou era ancora accasciato a terra, fissando il suolo. "Perché....", era solo questa la domanda che gli ronzava in testa. "Perché se n'è andata? Perché non sono stato in grado di farla rimanere con me? Perché non riesco a smettere di essere così triste?". Il suolo cominciò a bagnarsi. Non stava piovendo, il cielo era sempre limpido, senza nemmeno una nuvola. Erano lacrime. Lacrime che dal volto di Gaou si infrangevano sul terreno. Era la prima volta in assoluto che Gaou piangesse.

"Perché mi hai mentito Marco-kun? Mi hai sempre detto che grazie alla forza è possibile ottenere tutto.... malgrado la mia forza, malgrado il mio impegno... non sono riuscito ad ottenere ciò che più desideravo. Perché la forza... non è tutto?". Gaou si sentiva perso e continuò a piangere stando a terra.

Il vento si alzò improvvisamente e fece volare il foulard intorno al braccio di Gaou.
Un dolce ricordo che, volando via, ha lasciato solamente tanta tristezza.

venerdì 7 marzo 2014

Per la festa della Donna

Questa è una piccola Haiku per voi donne... tanti auguri ^_^


Nei vostri occhi
la dolcezza che ci fa
innamorare


その眼差しに
恋に落ちらせる
優しさ


sono manazashi ni
koi ni ochiraseru
yasashisa

La versione giapponese e romaji me l'ha fatta una mia amica, ma ovviamente ha dovuto adattarla dall'italiano e magari non ha rispettato la struttura dell'Haiku.... ma vabbè, non poteva fare miracoli :D